Siracusa / Il finanziere è imputato di associazione
per delinquere finalizzata all'esportazione di capitali
all'estero
Chiesta la condanna di Parretti a tre anni e mezzo
Santino Calisti
SIRACUSA – Circa dieci anni dopo il clamoroso
arresto ordinato dalla magistratura siracusana, il processo
contro il finanziere Giancarlo Parretti, accusato di reati
legati alla gestione di società che operavano, in Italia e
all'estero, nel campo della cinematografia, è arrivato alla fase
decisiva. Ieri il pubblico ministero Giorgio Orano ha esposto le
proprie conclusioni, chiedendo la condanna, oltre che di
Parretti, di altri tre dei restanti sei imputati. Per Parretti
sono stati chiesti tre anni e mezzo di reclusione; due anni e
due mesi sono stati chiesti per Salvatore Monaco, due anni per
un altro finanziere, Florio Fiorini, e un anno e due mesi per
Antonio Rappazzo. I quattro, secondo il rappresentante della
pubblica accusa, hanno agito secondo un piano che insieme
avevano concordato e per questo sono da ritenersi colpevoli di
associazione per delinquere. Per i restanti tre imputati, che
non rispondevano del reato associativo, ma solo di singoli casi
di presunte violazioni finanziarie, a giudizio del pm tutte le
accuse sono cadute, in parte per effetto delle tanto contestate
nuove leggi sul falso in bilancio, in parte perché certi reati
sono ormai prescritti a causa della lentezza con cui è stato
celebrato il processo, durato anni. È stata chiesta, pertanto,
l'assoluzione per Bruno Gulino e una sentenza di non doversi
procedere per Ord Timotej e Renato Pecoriello. Gli illeciti
finanziari ricostruiti dal pubblico ministero Giorgio Orano
cominciano sul finire degli anni Ottanta, quando (era il
settembre dell'88) Giancarlo Parretti divenne amministratore
della Cannon Group srl. Da questa società ne dipendevano altre
due: la Cannon Cinema Italia srl e la Cannon Production srl, la
prima proprietaria di una catena di sale cinematografiche, la
seconda impegnata nel campo delle produzioni cinematografiche. A
sua volta, la Cannon Group srl dipendeva da due società estere,
l'inglese Cannon Film Distribuction e la Cannon Production,
quest'ultima con sede nelle Antille olandesi. Parretti,
d'accordo con le altre persone finite sul banco degli imputati
con l'accusa di associazione per delinquere, decise di
smantellare le società italiane e di portare all'estero il
ricavato delle vendite. L'operazione per il trasferimento
all'estero di quelle somme non è in discussione. Ciò che la
magistratura inquirente contesta è la sottrazione di quei soldi
(una trentina di miliardi, che sarebbero serviti a Parretti per
preparare la scalata al colosso americano della cinematografia
Metro Goldwin Mayer) al Fisco e ai creditori delle società
italiane, ridotte a delle scatole vuote. Gli imputati di cui è
stata chiesta la condanna sono, inoltre, accusati di avere fatto
sparire la documentazione delle società svuotate, per impedire
verifiche contabili che avrebbero potuto consentire di
ricostruire i flussi di denaro verificatisi dietro il vorticoso
giro di operazioni finanziarie. Secondo la ricostruzione del
pubblico ministero, per realizzare il loro piano, Parretti e i
suoi presunti complici crearono una nuova società, la Iva srl,
di cui fu nominato amministratore Bruno Gulino. La Cannon Cinema
Italia, che delle due società italiane era la più ricca,
vendette le sale cinematografiche, incassando una trentina di
miliardi. A quel punto concesse alla Iva srl un prestito per
l'intera somma che aveva incassato. La Iva srl, a sua volta, con
quel denaro, rilevò la Cannon Group srl, ovvero la società che
controllava la stessa Cannon Cinema Italia. In questo modo i
soldi erano finiti alle due società, quella inglese e quella con
sede nelle Antille Olandesi, che controllavano la Cannon Group
srl. Le società italiane del gruppo erano ormai delle scatole
vuote e la Iva srl praticamente schiacciata dal pesantissimo
debito contratto. A questo punto sarebbe entrato in scena
Salvatore Monaco. È lui, per il pm, il “regista” del
trasferimento delle società, che, una dopo l'altra, finirono
tutte allo stesso indirizzo di Noto, via Galilei 12, che è anche
la sede del vecchio studio legale dell'avvocato Antonio Rappazzo.
Il capitale di ciascuna società venne abbattuto a soli venti
milioni. Fu l'Ufficio Iva, agli inizi degli anni Novanta, a
sospettare di quelle società che a Noto avevano lo stesso
indirizzo e a chiedere alla Guardia di Finanza di indagare. Un
tassello dopo l'altro, i finanzieri ricostruirono il
complicatissimo quadro di presunti illeciti. Uno scambio di
comunicazioni via fax tra i principali imputati sarebbe una
delle prove del piano concordato per portare i soldi all'estero.
Ma il pm ha ammesso che tante difficoltà incontrate nelle
indagini, tra cui il mancato ritrovamento di documenti
contabili, hanno impedito di raccogliere altre prove contro gli
imputati. Alla ripresa del processo, il 29 ottobre, la parola
passerà alla difesa, rappresentata dagli avvocati Bruno Leone,
Mario Fiaccavento, Federico Italia, Marco Mancuso, Olga Diamante
e Ettore Randazzo.
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